La formazione e il consolidamento del regime fascista passò anche attraverso gli intellettuali che contribuirono a costruirne la visione o che l’accettarono per tornaconto personale. Nel 1925 il filosofo Giovanni Gentile redasse il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, nel quale si legge: “oggi in Italia gli animi sono schierati in due opposti campi; da una parte i fascisti, dall’altra i loro avversari, democratici di tutte le tinte e tendenze, due mondi che si escludono reciprocamente”. Il Manifesto ottenne circa 250 firme ed aveva lo scopo di garantire a Mussolini una forte legittimazione politica. Fu pubblicato alcuni mesi prima della forte attività repressiva che fu la ratio delle cosiddette “leggi fascistissime”. Queste ultime, emanate tra il 1925 e il 1926, identificano – appunto – una serie di norme che diedero impulso alla trasformazione dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia nel regime dittatoriale mussoliniano. Tra queste si possono ricordare: 1) il provvedimento che stabiliva che il Partito Nazionale Fascista era l’unico ad essere legale, cosicché furono sciolte tutte le formazioni politiche, associazioni e organizzazioni accusate di porsi con la loro azione contro il regime; 2) gli unici sindacati riconosciuti erano quelli fascisti (scioperi e serrate furono proibiti); 3) tutte le testate giornalistiche dovevano essere sottoposte a controllo ed eventuale censura qualora fossero stati ravvisati contenuti ritenuti anti-nazionali o di critica nei confronti del governo. Tornando al Manifesto, esso fornì una giustificazione storica all’operato dei fascisti, considerati veri patrioti, delegittimando gli antifascisti, bollati come antipatrioti.
Si può dire che inizialmente il rapporto tra fascismo ed intellettuali fu alquanto debole, ad eccezione del protagonista della spedizione eversiva su Fiume, Gabriele D’Annunzio, punto di riferimento fondamentale, e del direttore d’orchestra Arturo Toscanini, candidato nella lista fascista a Milano alle elezioni del 1919 senza essere eletto, che in seguito prese le distanze dal fascismo. Sicuramente fra i più convinti, fin dall’inizio, fu Filippo Tommaso Marinetti, fautore del Futurismo, irriverente verso le forme di arte tradizionale. Margherita Sarfatti, nota critica d’arte italiana nel panorama culturale del tempo, fu amante e mentore del Duce. Colta e di origine ebraica, lo introdusse negli ambienti che contavano favorendone l’ascesa sociale, prima di essere a sua volta marginalizzata. Nonostante l’iniziale scarsità di intellettuali “organici” al sistema fascista, il partito del Duce trasse ispirazione e si alimentò di una cultura antidemocratica già ben radicata nel Paese. Se dall’inizio del Novecento parole come “patria”, “razza”, “impero”, iniziarono ad impregnarsi di significati inquietanti, ciò fu dovuto in parte agli esiti della Prima guerra mondiale che, con l’enorme sacrificio di vite umane, ne rafforzò la carica nazionalista ideologica. L’odio crescente verso i partiti di massa di sinistra e la prospettiva di trasformare l’Italia in una grande potenza rafforzavano un impianto idealistico che si poneva nettamente in contrasto con la democrazia liberale. Dopo la marcia su Roma, Mussolini sentì l’esigenza di stabilizzare il suo potere sia  attraverso l’uso della forza, sia tramite la ricerca del consenso e la propaganda. La diffusione del “Manifesto degli intellettuali fascisti” il giorno del Natale di Roma 21 aprile 1925, mirava a tale obiettivo. Il documento ideologico assegnava al fascismo un carattere religioso e proponeva – o meglio imponeva – una semplice divisione politica: amici o nemici del governo. Per sopperire al basso livello di adesioni al “Manifesto”, Gentile propose anche altri strumenti, tra i quali il giuramento di fedeltà imposto ai docenti universitari (soltanto pochi, circa una dozzina, rifiutarono quell’umiliante adempimento). Di contro, per alleggerire e in un certo senso far meglio digerire la struttura rigidamente repressiva alle élite degli intellettuali in senso generale, furono erogati ingenti finanziamenti ministeriali per chi si adattava a scrivere in modo conforme al regime. Giovanni Gentile fu docente di Storia della Filosofia e fece parte del primo governo Mussolini come ministro dell’Istruzione, cambiando il sistema scolastico in senso gerarchico. Non condivise i Patti Lateranensi tra Stato e Santa Sede, né le leggi razziali antisemite del 1938, ma non si oppose mai al regime. In seguito, nel 1943 aderì alla Repubblica sociale italiana. Fu ucciso a Firenze in un attacco dei GAP (gruppi di azione patriottica). Secondo la storiografia più accreditata, all’inizio dell’avvento del regime, pochissimi compresero il rischio che stava correndo la democrazia. Il grande storico socialista Gaetano Salvemini si schierò subito contro Mussolini, ma sottovalutando inizialmente il fascismo lo definì una “disgustosa tragedia brigantesca e carnevalesca” che non sarebbe durata a lungo. Nel 1925 fu arrestato dalla polizia fascista e grazie a una amnistia si rifugiò in Francia, dove, insieme ai fratelli Rosselli, fu tra i fondatori del movimento Giustizia e Libertà. Tra i primi a cogliere con lucidità l’essenza totalitaria del partito di Mussolini fu Giovanni Amendola: “il fascismo” disse “ha le pretese di una religione, le supreme ambizioni e le inumane intransigenze di una crociata”. Per le sue forti posizioni critiche nei confronti del regime, subì intimidazioni e aggressioni sino ad un feroce pestaggio da parte di un gruppo di fascisti a Roma nel dicembre del 1923; morì in Francia nel 1926.

Domenico Setola (dottore in giurisprudenza e studioso di storia medievale e moderna)