Siamo nel 2020. In alcuni momenti mi sembra di vivere nei film di fantascienza che tanto mi sono piaciuti e tanto hanno influenzato la mia gioventù.

L’inquinamento è a livelli mai visti prima d’ora, le politiche sociali hanno vissuto una stretta impressionante e le tecnologie avanzano in maniera esponenziale.
Certo è che, quest’ultimo punto, delle tecnologie, non è una inflessione negativa.
La mia domanda però, si sposta su qualcosa di più importante, di più profondo.
Qual è il punto focale dell’abbandono? Quando e come abbiamo perso la speranza nel futuro? Quando e come abbiamo smesso di progettare il futuro per trascinarci in una situazione di continua ricerca del benessere giorno per giorno?
Ovviamente non è un pensiero semplice, ha bisogno di riflessione, ha bisogno di ricerca, studio e ragionamento, ma più di tutto ha bisogno di sentimenti.
Così oggi voglio condividere questo pensiero con gli altri.
E partiamo proprio dalla “condivisione”. Questa parola ormai è strettamente legata alle nuove tecnologie, soprattutto alle reti sociali. Che sia chiaro che sono un convinto sostenitore sia delle nuove tecnologie, sia delle reti sociali, non ho mai pensato che fossero uno strumento negativo nella socialità moderna, anzi, sono un valido aiuto alla socialità.
Quindi, quale sfumatura della parola “condividere” è quella giusta? Se ce n’è una.
Condividere, adesso, non significa altro che esporre agli altri un aspetto della propria vita.
Un’ immagine, un momento, come un’ esplosione del proprio io. Eccomi mentre faccio questo! Qui sto facendo quest’altro!
È vero, è una maniera di interagire digitalmente con altri individui, ma ha tanto la forma di un messaggio unilaterale. Da me al mondo!
Io ho un’altra idea del “condividere”. Vedo la condivisione come un atto multilaterale, che ha bisogno del presente. Ha bisogno del presente e della presenza.
È dire, fare o pensare qualcosa e metterlo a disposizione degli altri, altri che hanno la possibilità, a loro volta, di dire, fare e pensare qualcos’altro per aiutare a plasmare e sviluppare questo “oggetto” appena creato. È un’ operazione bellissima ed imprevedibile. Non si sa mai dove si va a finire!
Arrivato a questo punto mi sono chiesto, cosa ha fatto cambiare la sfumatura dominante di questa parola, di questa idea?
Di motivi ce ne sono tanti, da diversi punti di vista, ma qualsiasi mio ragionamento sempre arriva ad una sola opzione.
Provo a spiegarla.
La quotidiana vita moderna, dal centro di una metropoli al piccolo borgo di campagna, quasi ci impone, una visione globale. L’immagine nella nostra testa della socialità è cambiata.
Non importa il nostro livello culturale, né importa il nostro reddito, tutti ormai abbiamo interiorizzato una sensazione di un mondo “piccolo”. Possiamo viaggiare all’altro lato dell’emisfero molto facilmente, raggiungiamo con chiamate e videochiamate amici che vivono in altri paesi con un telefono, guardiamo e compriamo cose in altri continenti comodamente dal divano di casa nostra.
Davvero sono solo io a pensare che il mondo si è ristretto? Se vi fermate un attimo a pensare, vi accorgerete che inconsciamente anche voi avete la stessa percezione.
Potete dirmi che non c’è niente di originale nel mio ragionamento. Tantissimi teorici e studiosi lo hanno affermato, ed è vero.
Quello che voglio aggiungere io è una normale conseguenza di questa nuova maniera di interagire con la realtà.
Abbiamo guadagnato una visione ed un’  interfaccia globale danneggiando o, addirittura, distruggendo una visione locale.
Voglio aggiungere a questo sproloquio un’altra componente, la comunità.
Nella storia dell’uomo la comunità, il gruppo sociale più vicino all’individuo, ha giocato un ruolo fondamentale. È nella comunità che la persona cresce e si confronta. È nella comunità che l’essere umano apprende a relazionarsi.
La comunità ci fornisce le basi per due sentimenti che oggi sono considerati fuori moda, la sensibilità e l’empatia.
Il vivere gomito a gomito con gli “altri” ci aiuta a comprendere, ci allena a capire ed accettare la diversità. Ci regala la visione critica di questa nostra realtà.
Sono proprio la sensibilità e l’empatia le sensazioni che ci permettono di creare legami, relazioni e collaborazioni.
Dove mi porta questo fiume di parole? Mi trascina verso la visione, forse utopistica, di una riconquista della comunità locale. Un rinascere in una dimensione più vicina a noi, un tornare ad essere persone tra persone.
Attenzione, non confondete la mia idea con una delirante cancellazione della personalità, vorrei tanto vedere confronti e relazioni di individui coscienti ed indipendenti.
La mia visione per il nostro futuro è una dimensione locale che sia complementare e che rafforzi la nuova socialità globale. Voglio recuperare quelle relazioni e realtà che uniscono.
Sono convinto che solo riprendendoci le nostre “comunità locali” potremo guardare al futuro con speranza e progettualità.
Può sembrare un discorso vuoto e fine a se stesso, è gusto il contrario.
Ripartendo dalle comunità locali abbiamo la possibilità di creare strutture solide e più grandi, capaci di resistere ai colpi.
Ripensando e riprogrammando la dimensione locale possiamo rendere forti tutti i tipi di relazioni, quelle economiche, quelle politiche, quelle sociali, perché tutte hanno una componente in comune, sono relazioni umane.
E sono convinto anche di un’altra cosa. Non sono l’unico che sente questa esigenza di ri-connessione. Non sono l’unico a pensare che partire dal “semplice” sia la soluzione per le nuove
E vecchie grandi sfide.
Non sono l’unico che vuole provare a creare un futuro migliore a misura d’essere umano.
Giuseppe Migliore
Coordinatore Afragola VIVA