“Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento”. Con queste parole il (quattro volte) Premio Pulitzer Robert Frost tenta di descrivere la sua “visione poetica” tanto spiazzante quanto intessuta di autentica forza in grado di turbare, mettere in discussione, racchiudendo nei due estremi del fuoco e del ghiaccio, il viaggio che attende il poeta insieme al suo lettore. Autore audace, refrattario, ingannevole, definito fra gli ultimi grandi modernisti con cui bisognerebbe tornare a fare i conti. Frost aveva l’immaginazione acustica – come precisa Ottavio Fatica – nella postfazione alla raccolta “Fuoco e Ghiaccio”, uscito in Italia per Adelphi. Frost sapeva cogliere “il suono del senso” e a tal proposito diceva: “il posto migliore per cogliere il suono astratto del senso è ascoltare voci dietro una porta che ottunde la parole”. Un percorso di ascolto di un particolare tipo di silenzio che restituisce una parola poetica quasi “rimodulata” da questo porsi “dietro quella porta”. Da lì potrebbero arrivare voci non sempre nitide, chiare, voci probabilmente che si confondono, e tradurre ciò per Frost vuol dire “lasciare aperto ogni campo di possibilità espressiva” facendosi interprete del dolore e del tormento in unione con la Natura, ove i suoi versi oscillano fra delicatezza e devastazione facendo percepire al lettore il clima di una stagione, il profumo delle piante, di un pino, in cui tutti i sensi sono coinvolti. “Non si piangono lacrime, si piange rugiada”, perché “la felicità rende in altezza ciò che le manca in lunghezza”.

Domenico Setola