Sul processo a Gesù: tra storia, storiografia e narrazione.
Le problematiche che si aprono a proposito dell’analisi delle fonti sono innanzitutto quelle riguardanti la loro attendebilità. Lo studioso si trova concretamente di fronte, per il processo di Gesù, a due tradizioni principali: quella sinottica e quella giovannea. Da tempo c’è un consenso quasi unanime tra gli studiosi a dare preferenza alla tradizione sinottica, e in questa a Marco, ritenuto il più antico dei sinottici. Per quanto riguarda la Passione, poi, Giovanni fornisce alcuni particolari che vanno presi in seria considerazione: è lui che riporta l’affermazione circostanziata sulla incompetenza del sinedrio giudaico in materia capitale, e sempre lui fornisce probabilmente la data esatta della morte di Gesù (il 14 del mese di Nissan). Adottando come fonte privilegiata il Vangelo di Marco, per il processo vanno tralasciate le poche fonti non cristiane (Flavio Giuseppe e il Talmud babilonese tra i Giudei, Tacito tra i pagani), che non aggiungono quasi nulla alle notizie dei Vangeli, così come, per lo stesso motivo, vanno tralasciate anche le fonti cristiane al di fuori dei Vangeli.Il problema centrale che si pone è dato dal doppio processo a carico di Gesù: uno davanti al sinedrio giudaico, l’altro davanti al prefetto romano.Dopo la riduzione della Giudea a provincia romana nel 6 d. C., il tribunale ebraico non aveva più il potere di condannare a morte o quanto meno di fare eseguire sentenze capitali, per questo ci si doveva rivolgere al governatore romano, unico detentore del potere capitale. Gli studiosi mettono in discussione non solo la natura e le caratteristiche del processo dinanzi al sinedrio ma ne contestano la stessa esistenza, a differenza del processo davanti a Pilato, la cui esistenza non può essere messa in discussione.Al processo davanti al Sinedrio non ha assistito alcuno dei discepoli di Gesù, sicché il racconto dei Vangeli non si basa su testimonianze dirette e attendibili; si tratta di un processo eminentemente religioso che si attiene alle norme della legislazione mosaica. Non riuscendo a trovare due testimoni concordi nel provare infrazioni di Gesù alla legge, pur avendo egli assunto un atteggiamento molto libero nei confronti della legge mosaica rompendo con la spiritualità farisaica, non risultò facile accusarlo di una precisa violazione di legge, cosicché il processo deviò verso problemi politico-religiosi. Assodato che i componenti del Sinedrio non fossero semplici esponenti dei gruppi sadducei e farisei ma rappresentanti dell’aristocrazia sacerdotale e laica, e perciò politicamente compromessi con i Romani, il punto culminante del processo ebraico è la risposta affermativa di Gesù a Caifa sul suo essere il Messia, il Figlio del Benedetto. Viene dunque affermato per la prima volta, esplicitamente e pubblicamente da parte di Gesù di essere il Messia. La messianità che Gesù afferma è orientata non alla figura politico-nazionale del Figlio di David, ma alla figura celeste escatologica del Figlio dell’uomo. A tal proposito Gesù non aveva nessuna, o quasi nessuna, delle prerogative che ci si aspettava dovesse avere il Messia (regalità, maestà, splendore), né aveva realizzato quanto ci si aspettava dovesse realizzare il Messia (pace, giustizia, libertà). Cosicché il processo si concluse con una condanna a morte che sembra apparire per bestemmia e per l’enormità delle sue pretese, e dunque Gesù, meritevole di morte, andava consegnato al governatore romano.Il processo dinanzi a Pilato rende necessaria una trasformazione della condanna. A Pilato poco interessava delle speranze religiose, essendo più preoccupato delle agitazioni politiche dei Giudei. Gesù, infatti, venne condannato da Pilato come come ribelle e sedizioso nei confronti di Roma, per alto tradimento, per maiestas.Come confermano anche gli storici del diritto, questo processo ha una natura squisitamente politica: iniziato con una denuncia privata, si è concluso con una condanna formale per maiestas, con un procedimento inquisitorio affermatosi durante il principato con forme diverse da quelle previste dall’ordo iudiciorum che nelle province era tenuto dai governatori quali delegati del princeps.
Domenico Setola (dottore in Giurisprudenza e studioso di storia medievale e moderna)