Ciò che un testo dice si offre per quello che è. Nello stesso momento in cui si da, si fa avanti l’interprete, il commentatore, il “critico” massmediatico funzionale al sistema virtuale in cui siamo calati. Il risultato di questa irruzione sulla scena di questi tre soggetti è già un punto problematico che oscilla tra ciò che il testo dice, ciò che l’autore intendeva dire e ciò che l’interprete pensa che il testo voglia intendere. Si è talmente sicuri che un testo corrisponda esattamente a ciò che l’interprete pronuncia nella sua decifrazione che – nelle linee di passaggio e scivolamento di questo processo dal testo all’interpretazione – tutti i mutamenti che operano celandosi all’interno di questa procedura si danno per scontati in quanto non si vedono, non si leggono, non si ritengono necessari ma, ancor prima, non se ne riconosce l’esistenza in sé.
Il punto è che tra attività artistica e lavoro del pensiero si rivela un rapporto mutuo che scorre nei due sensi: vi è una dimensione fortemente critico-cognitiva dell’arte; vi è una potenza metaforico-immaginativa nella filosofia. Ciò che è significativo è che questo insieme di relazioni tra scrittura del pensiero e scrittura dell’arte si colloca precisamente nel punto critico dell’itinerario stilistico della filosofia e faccia sentire i suoi effetti all’interno di un irresistibile processo di trasformazione. Sia cioè giocato sul piano di quei mutamenti dei mezzi e degli stili espressivi del testo poetico, filosofico. Queste “condizioni interne e poco visibili”, G. Deleuze le vede esprimersi per la prima volta ai massimi livelli artistici di innovazione stilistica e concettuale nella “filosofia dell’avvenire” di Nietzsche. Vi è l’irruzione massiva del trascinamento metaforico e finzionale nel testo filosofico, che diventa un vero e proprio spazio scenico in cui agiscono e si muovono, spesso attraverso insoliti passaggi quasi-narrativi, i “personaggi concettuali”( ad esempio il nano e lo stesso Dioniso). Per Deleuze, Nietzsche allestisce un teatro della ripetizione in cui si drammatizzano, si mettono in scena e in movimento le idee. È in questo senso che lo Zarathustra di Nietzsche “appartiene tutto alla filosofia, ma è concepito tutto per la scena, come un insieme sonorizzato, in marcia e in danza”. Ciò non significa imbellettare il pensiero, ridurlo a mero formalismo stilistico. Significa invece decifrarvi una macchina filosofica e sensibile di concetti e di affetti. Ed è l’e, la congiunzione che conta, in ordine all’equilibrio tra immagine e concetto, tra potenza della metafora e potenza dell’argomentazione, equilibrio necessario affinché il primo polo non prenda il posto del secondo. La comprensione assume anche un aspetto di carattere stilistico, avviene anche attraverso questa via. Ma comprensione resta. È importante sottolineare questo nesso tra temi e forme, per non rischiare di interpretare la questione delle modalità espositive in chiave di sterile diversivo estetizzante. Il problema dei rinnovamenti formali non si pone che in rapporto ai nuovi contenuti. Ma questo problema non è dato in chiave oppositiva, no. Va letto, qualora se ne abbiano le capacità, nel suo movimento comprensivo di forma e contenuto, non come lettura staccata e distaccata dei due (forma e contenuto). Per comprendere che anche l’oscurità, il sogno, il frammento onirico, la vigile attesa e veglia di una parola che si costruisce nel verso, non possono darsi nella scrittura se non in questo senso che sollecita ed impone una chiave di lettura aderente. Quella di cui parlavamo poc’anzi.
Il problema delle “radici”(culturali, concettuali, storiche) è che nella loro vita futura delineano un percorso lineare di interpretazione e linguaggio. Invece, ci sono congiunzioni date da un modello particolare semantico per cui si legano un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni perché – a differenza dell’albero che cresce attraverso le sue radici- qui non c’è una gerarchia, un centro, e un ordine di significazione.

Domenico Setola (dottore in giurisprudenza e studioso di storia medievale e moderna)